Nestlé vuol ridurre il lavoro ai padri per darlo ai figli. Ma del merito importa a qualcuno?

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Guido Tedoldi

Se i padri riducono il proprio orario di lavoro settimanale (e quindi lo stipendio) da 40 a 30 ore, l’azienda assume i loro figli con contratto part-time. Questa proposta l’ha fatta la Nestlé nel suo stabilimento Perugina di San Sisto, in Umbria. Un comportamento aziendale che va contro le regole elementari della logica imprenditoriale, secondo le quali le aziende tentano di assumere i lavoratori migliori possibili per fornire i prodotti migliori possibili. A Nestlé non importa che le persone che assume siano capaci; le basta che siano parenti di chi ha già in fabbrica.

I lavoratori di primo acchito sembrano propensi a non accettare la proposta aziendale, e dal 26 luglio i sindacati di fabbrica hanno indetto scioperi.

Per capire le motivazioni dei lavoratori, Valentina Conte ha pubblicato su la Repubblica del 24 luglio un’intervista a Michele Greco, coordinatore della rappresentanza sindacale di San Sisto. Secondo lui: «Qui non siamo di fronte alla prassi classica delle grandi aziende, con lavoratori vicini alla pensione che lasciano incentivati per far posto ai figli. Qui si scarica la crisi sugli organici e basta».

Greco basa la propria opposizione su alcuni dati: nello stabilimento di San Sisto lavorano 897 persone assunte a tempo indeterminato, ma già adesso 275 hanno un contratto part-time. L’età media è di 35 anni, quindi la maggior parte dei dipendenti con figli non ha in casa ragazzi pronti per la fabbrica bensì bambini ancora piccoli. Se i lavoratori che ci sono si riducono lo stipendio, e i loro figli guadagnano part-time, in una famiglia lavorano in due ma entra meno di uno stipendio e mezzo.

Numeri diversi li ha forniti Gianluigi Toia, dirigente del gruppo Nestlé, a Chiara Merico che lo ha intervistato per il sito web de il Fatto Quotidiano: «L’età media dei collaboratori dello stabilimento di San Sisto, assunti a tempo indeterminato, ai quali è rivolta la proposta, è 50 anni. Dunque stimiamo in un centinaio circa i figli dei dipendenti che potrebbero entrare in azienda con un contratto a tempo indeterminato, anche se è difficile fare previsioni, trattandosi di un’iniziativa su base volontaria».

Nell’articolo del Fatto si citano altri casi di aziende che, con varie modalità, hanno pensato la stessa cosa di Nestlé: si va da Poste Italiane a Federlus, che riunisce le Banche di credito cooperativo del Lazio. A quanto pare, se lo scopo di un’azienda è mantenere relazioni tranquille con i propri dipendenti, la strategia di assumere i loro figli è efficace e ha una sua validità.

Il problema è che, per avere la pace interna, si rischia di perdere di vista la qualità della forza lavoro. I lavoratori non sono oggetti fatti con lo stampino, che uno vale l’altro. Sono persone, ognuna con le proprie doti individuali. Che futuro di qualità pensa, per sé, un’azienda che non cerca di assumere i lavoratori migliori?

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