Lo scandalo Datagate che ha messo nei pasticci Facebook e il suo CEO Marck Zuckerberg ci ha fatto aprire gli occhi su un particolare non da poco: tutte, ma proprio tutte, le applicazioni che scarichiamo sul nostro telefono “gratis”, in realtà non lo sono.
E sì, perché sebbene non ci venga addebitato nessun pagamento, stiamo cedendo agli sviluppatori dell’applicazione una serie di informazioni personali che nella maggior parte dei casi verranno cedute a soggetti terzi per poi essere sfruttate con finalità di marketing. L’ulteriore conferma, semmai ce ne fosse ancora bisogno, è arrivata dall’annuncio di ieri di WhatsApp che ha stabilito il divieto di utilizzo del servizio di messaggistica istantanea ai minori di 16 anni. Stando alla nota diffusa ieri, l’applicazione avrebbe adottato tale misura per adeguarsi al General Data Protection Regulation (GDPR) che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio. Il punto è che il nuovo regolamento europeo sulla privacy non dice affatto che il gestore di un’applicazione non può concludere un contratto con un minore ma dice che non è possibile chiedere a un minore di 16 anni il consenso al trattamento dei suoi dati personali. Non potendo avere questo tipo di autorizzazione Whatsapp ha preferito escludere in blocco una fetta di potenziali utilizzatori dell’applicazione. Il motivo, forse non troppo esplicito, è che il gestore non ha alcun interesse ad offrire un servizio di chat se non può trasferire i dati dell’utente a terzi per finalità come la profilazione e quindi il marketing e la pubblicità. Si potrebbe obiettare che le conversazioni su Whatsapp sono criptate e quindi nessuno, neppure Whatsapp stesso, può vederne il contenuto.
Di quali dati stiamo parlando allora? Di una specifica categoria che prende il nome di metadati: ossia il tempo passato online, in quali fasce orarie, con che frequenza. C’è un punto però sul quale vale la pena di soffermarsi un istante: chi vigilerà che il minore di 16 anni non bari e dichiari di avere anche solo un anno in più pure di accedere al servizio? In un’intervista ad Agi, Guido Scorza, avvocato esperto di Internet e membro del team digitale di Palazzo Chigi, ha affermato: “In assenza di una identità digitale forte, è inverificabile che il tuo interlocutore abbia una certa età. Si tratta di un divieto di carta quanto lo sono i divieti basati su quasi tutte le identità online. Insomma finirà come già accade sui siti porno e di giochi d’azzardo: finirà che un minore clicca, bara e accede al sito o al servizio. La norma serve certamente a imporre a Whatsapp l’obbligo di chiederti quanti anni hai. Ma il regolamento non prevede nulla sui controlli. Dice solo che il fornitore del servizio deve fare tutto il possibile per verificare che i genitori siano quelli che dichiarano di essere”. Insomma, tutto dipenderà ancora una vota, e come “forse” è giusto che sia, dall’attenzione dei genitori rispetto all’uso che i minori fanno del cellulare. Intanto attendiamo le prossime mosse in questo scacchiere sempre più complicato di normative e adeguamenti.